Una prece per Manlio©

Avevo restituito l’auto a noleggio a Viareggio. Sarei dovuto scendere a Palermo con quella. Ma anticipai la consegna. Così come dovetti anticipare il ritorno. Manlio non sopportava il viaggio in macchina e questo lo sapevo da tanto tempo. Aveva già prenotato quattro biglietti per il Frecciarossa Firenze-Roma e quattro per il Frecciabianca Roma ReggioCalabria. Era l’alba di Giovedi 6 marzo 2014. Tornavo da Milano. E ora ero seduto su una sedia stile retrò in uno studio che sapeva di ottocento. Il suo studio. Lo aspettavo guardando ammirato una serie infinita di librerie a muro con tanti di quei libri da far venire la voglia di contarli uno per uno per riuscire a non riuscirci. Pensavo a mio padre, a quel libro di Manlio sul suo comodino, quella notte di tanto, tanto tempo fa. Pensavo a quello che di bello diceva mio padre a lui di me, ma non a me, a me era difficile che parlasse. Quanto tempo. Il tempo non ha tempo, quando perdi il tempo. E poi finisce che il tempo non ti aspetta e perdi quello, tutto quello che avresti voluto, senza possibilità di ritorno. E quanti pensieri a rincorrere i ricordi. Manlio aveva perso una figlia circa vent’anni fa. E’ più facile superare la morte di un genitore. Tale non è sopravvivere alla morte di un figlio. Mi diceva. L’altro Manlio era morto giù a Catania qualche minuto dopo la mezzanotte. Sapevo che per lui era un dolore. Ma a 97 anni, come dice Manlio, i dolori ormai sono come i piselli, se li sbucci ne trovi altri. Se ne era andato probabilmente senza anticiparglielo. Si chiamavano entrambi Manlio e abitavano da un estremo all’altro della penisola. Uno era un poeta, un filosofo, un paroliere, un cantore di vita, era stato un grande amico di mio padre e poi mio e abitava alle falde dell’Etna ed era morto all’età di 89 anni. L’altro, lo stavo aspettando da qualche minuto, ed era un giornalista ormai in pensione, ma ancora uno scrittore esistenziale in attività. Uno di quelli che racconta come si dovrebbe camminare sulla vita con scarpe comode senza perderne il gusto e il piacere. Ad un tratto il crepitio avvolgente della porta di legno antico che si apriva nello studio, mi svegliò dal mio intorpidimento dei soprapensieri…

“Caro il mio amico della vecchia Trinacria…”, esclamò non appena comparve sull’uscio, “sai com’è …porte in larice non se ne fanno più. E se c’è ancora qualcuno che le fabbrica, le fabbrica nuove. A me piacciono antiche, vecchie…E la lascio così, mi piace il suo scricchiolio. Cosa ne sanno i masticatitanio dei computer del suono ammaliante di una porta di larice…Loro sanno solo di bip e di ding…”.

Mi abbracciò con la sua stretta solo leggermente tremante rispetto alla sua veneranda età. La sua voce però non era tanto ferma come il resto del corpo, ma era roca e tremula e lo era molto più di sei anni prima, l’ultima volta che ci eravamo abbracciati. D’altronde aveva girato il 97° anno della sua vita. Lo guardavo con ammirazione. Come ho sempre fatto quando ho guardato e ascoltato quest’uomo. Ammirazione. Meraviglia. Curvo leggermente ma sereno nel tono e soprattutto nella sua solita ironia pungente e immancabile. Era deciso a scendere In Sicilia a portare il suo omaggio personale al suo vecchio caro indimenticabile amico di storie e di viaggi. Mi aveva fatto chiamare dal suo assistente. Guai a chiamarlo badante. E saputo che mi trovavo a Milano e che ero in discesa proprio per il funerale, mi intimò di passare da lui. Il suo di viaggio verso giù lo voleva fare con me. Un regalo per me … di valore inestimabile. Il suo assistente era un distinto signore italiano, sulla cinquantina, molto educato, di grande rispetto e molto silenzioso. Era delegato alla scrittura sottodettatura. Era così che riusciva ancora a scrivere i suoi libri. Lo aiutò ad accomodarsi su quella che doveva essere la sua poltrona personale e poi si ritirò per sistemare le ultime cose per il viaggio. Era una poltrona stile Chesterfield come lui mi precisò, una di quelle che sono belle rigide di sotto e di dietro. “Massaggiano senza spendere una lira..” Già …. lui continua a chiamare l’euro…lira. Una gran bella poltrona, pensai, all’occhio è uno stile un pò vetusto ma ha un impatto solenne, in ogni caso anche se non mi piace, sarà bene non farglielo capire. Nel clima generale austero e rigoroso che aleggiava in quella casa … certo il suono della mail in arrivo nel mio iPad stonò non di poco. Manlio mi guardò ammiccando con aria sorniona.

“Facciamo una cosa durante il viaggio….Invertiamo la rotta di Magellano….est ad ovest e ovest a est: tu ti leggi un libro, e a me dai la tavoloccia bip .tvb.cmq.stp.cff.mpp.trr.prg.bjq e “maremma bucaiola”. …”

Una espressione colorita per stabilire bene dove ci trovavamo in quel momento. Manlio abitava sul lungomare di Tonfano, vicino Marina di Pietrasanta, non molto distante da Viareggio.. Ma guai chi chiamava quella localita con il nome moderno di Tonfano. Per lui era Fiumetto….e Fiumetto dovevi chiamarlo altrimenti entravi in una disquisizione di geografia storica e incazzatura retroattiva dalla quale non ne uscivi più. Quindi Manlio Cancogni, in arte di gioventù Capendras, abitava a Fiumetto e io ero lì con lui. E da lì a poco ci saremmo fatti accompagnare a Firenze per salire sulla Frecciarossa.

“Apri il cassetto centrale della scrivania…”, mi disse, “i biglietti sono lì” . Enrico voleva farli online, ma era più impacciato di me. Gli ho detto di farli alla stazione tornando da Firenze. E ci troverai anche il libro per te. Ma prima dammi la tavoloccia…”

La parola tavoloccia e il riferimento al copriwater non era una coincidenza. Era proprio un’espressione voluta per rendere bene il suo debole per il progresso tecnologico. Il libro dello scambio era uno dei suoi libri: “Tutto mi è piaciuto”. Mi guardava negli occhi. Voleva vedere nei miei la difficoltà di uno che senza iPad si sente perduto. Come ormai tutti gli schiavi della tecnologia. Io non volli cadere nella sua provocazione e barattai subito con entusiasmo. Ma l’imbarazzo non lo puoi nascondere ad una volpe di 100 anni. E lui sorrise bonariamente.

” Se devi prendere appunti…”, disse, ” annotali su questo, consideralo un regalo….”

E mi mise nella tasca della giacca un piccolo quadernetto nero con elastico e un lapis (non matita…ma lapis, rigorosamente lapis come lo chiamava lui..). Un altro regalo da custodire gelosamente.

Secondo i calcoli di esperienza quasi trentennale, il calvario emicranico sarebbe arrivato di sabato. Ma le probabilità che arrivasse prima, e quindi il giorno del funerale, precisamente il giorno dopo, erano in percentuale rilevante. Non si deve certo scomodare la madrina di psicologia per capire come mi sentivo in colpa per non essere probabilmente in sensi nel giorno in questione. E lo stavo appuntando come faccio sempre con i miei pensieri…stavolta non sul pezzo di tecnologia, ma nella prima pagina del quadernetto di Manlio.

Poi, quasi a riempire il vuoto di parole che si era creato… “Io, tu. Egidio l’assistente, ma il quarto…viene anche tua moglie…?” Sua moglie era una graziosa educatissima signora anche lei di quasi 90 anni, che ancora io non avevo avuto il piacere di salutare. “A proposito..dov’è la signora Rori…”? Rori si chiamava, o almeno lui la chiamava così, tutti la chiamavano così e non ho mai saputo bene se fosse un diminuitivo oppure proprio il nome preciso.

“Nossignore…Cortomaltese…Rori starà qualche giorno in compagnia più sicura di me….” sorrise.

“Il quarto biglietto è per una persona speciale … sta per arrivare. E speriamo che lo faccia presto altrimenti perdiamo il treno…”

Da lì a poco entrò Egidio con la sorpresa più sorpresa che Manlio poteva pensare. Egidio si piantò davanti alla porta con il solito aplomb e fece avanzare solo lei.

“Sorpresa!…”. Era entrata come il vento del nord. La sua solita esuberanza e il suo tipico accento romano mischiato con qualche inflessione sarda. Federica. Federica Fratoni, Federica Camba, per dispetto a suo papà Fratoni. Una storia lunga. Io la conoscevo già. Ma aveva i capelli lunghi, tempo fa, adesso invece esibiva un taglio stile presidio militare con i capelli non più lunghi di 3-4 cm. Manlio l’abbracciò con tutto l’affetto che lui riesce sempre ad esprimere e la mise a suo agio. Io non avevo tanto da dire, dopo la burrasca di anni prima. Rimasi in piedi, attendendo un suo cenno, un suo passo di avvicinamento. Che non fece.

“Hanno requisito tutti velieri di sua maestà il re, oppure CortoMaltese è qui perchè ha perso di nuovo la rotta…?, disse seria rivolta a Manlio.

Manlio la guardò ammiccando un tiepido sorriso. Poi Federica si girò verso di me che in piedi ero e in piedi ero rimasto e mi abbracciò come solo lei sa abbracciare. Un abbraccio accompagnato da una risata profonda, sentita. Era scoppiata la pace. Una pace da una guerra che solo lei aveva dichiarato. Come solo le donne burrascose sanno fare.

Egidio era rimasto sulla porta, come ad aspettare l’attimo propizio, l’attimo fuoriuscente dal momento in cui avrebbe potuto non rovinare quello che Manlio aveva preparato e preconfezionato.

“Giovanni è arrivato..”, disse, “..se siamo pronti possiamo farci accompagnare a Firenze…”

La destinazione Firenze Santa Maria Novella. Il Freccia è un treno ultramoderno c’è pure il wifi, peccato che il libro di Manlio non aveva il ricevitore, mentre il mio iPad dotato di ultracchiappawifi giaceva sonnicchiando nella sua 48 ore. Dormiva. Come il suo temporaneo padrone.

Anche Egidio era passato dal mondo dei colli tesi al mondo dei colli reclinati, quasi subito.

Il viaggio da Firenze a Roma era corto…e già appannavano la vista dietro gli occhiali scuri. Immaginavo quanta compagnia mi avrebbero fatto da Roma a Villa San Giovanni. Io che non dormo di notte con il silenzio, che è silenzio per gli altri. Figurarsi di giorno, sul treno e con quel trambusto.

Federica leggeva il libro di Manlio. E ogni tanto mi chiedeva particolari relativi a dei modi di dire. Quelli di Manlio. Sembrava più attenta non tanto alla risposta, quanto al modo con cui le veniva detta. Federica era molto legata a Manlio. E anche al fu Manlio. Il Manlio Sgalambro di Catania. Quest’ultimo aveva scritto molto, era stato un grande paroliere di nobili pezzi musicali, soprattutto quelli di Battiato. Ma anche di altri. Ma Battiato lo adorava. “La Cura”, mitica canzone sua è una poesia di Manlio. Manlio non può bearsi più di ascoltarla. Anche se è riuscito a raggiungere novantanni. Con una forza e una serenità invidiabili. Mi aveva detto l’ultima volta che ero andato a trovarlo:

“Vorrei arrivare ai novanta, vorrei vedere cosa si prova a vedere il tempo da lassù, vorrei arrivare a vedere se la mia mente ha il coraggio di essere ancora sana, in mezzo ad un corpo che ormai mi suscita ilarità….”

Riuscì ad arrivare quasi ai novanta. Giusto un attimo. Solamente per vedere, come aveva sperato. Avevano lo stesso spirito guerriero i due Manlio. Forse era questo che li univa mentalmente anche se fisicamente erano distanti. Pensavo tutto questo e guardavo il mondo fuori. Vedevo tutto il contorno sfrecciare velocissimo. Pensavo a tutti gli anni dietro me. Pochi rispetto ai loro. Ma quanto pesanti, duri, schiaccianti…..Ma alla fine passati velocemente così, come ora questo correre fuori velocissimo degli alberi. Fissavo un punto fermo sul finestrino del treno, una macchia di pioggia più scura. La fissavo fino a storcermi gli occhi. La coda lunga dell’occhio continuava in sottofondo a scorgere il lontano velocissimamente passare. Pensavo…quanta vita passa non tanto distante…e veloce…senza quasi che si abbia il tempo o la forza di accorgersene. E nel frattempo che non riusciamo a vedere più lontano del nostro naso, la vita poco lontano va via senza ritornare, passa veloce senza soluzione di continuità. E lascia tanti dubbi. Tanti punti interrogativi. Tanti dilemmi. Eravamo arrivati a Roma intanto. Manlio doveva avere l’orario dei treni in testa. Qualche secondo prima che il treno entrasse in stazione, abbassò gli occhiali scuri fino alla punta del naso, scoprì i suoi occhi ancora chiusi dal torpore e disse…:

“Egidio, te la sei fatta sempre dormendo, suvvia stropicciati gli occhi e scendiamo….”

Era solo Egidio che dormiva.

Prendemmo il taxi e e arrivammo in un punto della via Flaminia. Non tanto distante. Di fuori non era granchè. Il suo ristorante preferito. Ma prima aveva ben pensato a dirgliene quattro al tassista che aveva piantato il taxi davanti ad una trattoria vicinissima che non aveva niente a che fare con il suo ristorante. Ma il nome, il passato, la storia buttato in un così gesto inconsulto..no, non lo sopportava. Quello era un altro locale. Vicino. Niente a che vedere. E Manlio mise birra al motore del suo fastidio. Non lo avevo mai notato ancora così. Ma pensai che un pò di comune irrigidimento di arterie era normale si facesse sentire ogni tanto alla sua veneranda età. Anzi…e ci mancherebbe altro. Sarebbe stato un miracolo, altrimenti. Vederlo così attivo e vederlo in quello stato positivo di presenza psicofisica mi rallegrava. Saranno anche le medicine che prende, pensai, magari qualche dozzina di antidepressivi….forse. O forse no. O magari è solo una cascata di energia mentale e spirituale. Le vie di Manlio sono infinite. 97 anni. Federica sorrideva. Forse pensava quello che pensavo io. Mi prese sottobraccio ed entrammo dentro. Ottimo Ristorante.

Il frecciabianca partiva alle 15.55. Giusto in tempo per fare shopping in stazione per Federica. Io con un pò di fortuna, avrei potuto trovare il mio amico Madhur, indiano. Niente telefonino. E’ un metodo il suo. E’ un rito. Un modo di vivere. Forse con il richiamo dei tamburi della sua terra, lo avrei potuto chiamare. Sarebbe stato un piacere. Ma a Roma Termini non si poteva nemmeno immaginare. Manlio si sedette al bar insieme ad Egidio. Madhur era arrivato a Roma, a vivere. Rivivere. Ricominciare. Non dimenticare. Ricordare diversamente. Faceva la guida. Sapeva parlare molto bene l’inglese, l’indiano, l’italiano e il siciliano. Aveva un calesse a bicicletta. Incredibile Madhur. Lui pedalava e il calesse portava due turisti. Si fermava e spiegava. Madhur, 25 anni. O forse di più. O forse anche più di 30. Non l’ho mai capito bene. Ma che importanza poteva avere. Madre, padre, sorella, moglie…deceduti. Un attentato. Lui sfiancato dal peso del dolore. Della rabbia. Della vendetta. Del rancore. Ha provato a farcela. Sta provando. Non lo so. Se ce l’ha fatta. Se ce la sta facendo. Se si può mai dire così. Il mondo è duro. Ti lascia sempre dietro. Non ti aspetta. Nessuno guarda da dove vengono le tue lacrime, figuriamoci se tu le nascondi. Mi manda almeno una volta al mese una cartolina. Incredibile Madhur. Le cartoline, e chi le manda ormai più..? Madhur, Madhur le manda. Una con un turista indiano, una con due siciliani, una con un tedesco che non parla nessuna lingua conosciuta eppure ride contento e lo abbraccia… . Incredibile Madhur. Gli voglio bene. Lui me ne vuole di più. Non sono riuscito a vederlo. Meglio così vuol dire che starà pedalando e sudando per qualche euro da qualche turista con qualche macchina fotografica puntata verso qualche monumento. Forza Madhur, ricordati la promessa. Ce la faremo. Madhur ha una figlia: Kajri. Madhur ogni tanto viene in Sicilia a vederla. Kajri sa che è un mio caro amico nato nella stessa terra d’origine sua. Kajri è molto affezionata a Madhur. Kajri è una ragazzina splendida. Madhur forse un giorno glielo dirà. Forse. Ma qui a Roma Termini di Madhur nemmeno l’ombra. Kajri in indiano vuol dire ..”come una nuvola”.

Manlio ci aspettava ai piedi della scaletta del nostro vagone, con il suo bastone in mano. Sembrava minaccioso. ma aveva l’aria sorniona. Io non ero l’ultimo fortunatamente. Mancava Federica. Si sarebbe presa lei eventualmente i rimbrotti. Egidio aveva fatto le cose per benino anche con la prenotazione del frecciabianca. Tutti insieme a quattro, gli uni davanti agli altri. Federica di lato a me, stavolta. Anche lei stavolta nel club dei colli reclinati, quasi da subito. Come quasi da subito mi ritrovai da solo a guardarli entrare in contatto con Morfeo, che dentro le sue caverne, probabilmente stava ripassando insieme a loro tutto quel cibo che avevano buttato dentro lo stomaco e che dovevano digerire.

Ripensavo alla burrasca con Federica. Federica Camba era una cantante e autrice musicale. Aveva trovato una bella musica per una mia poesia, qualche anno fa. Ed insieme al suo amico Daniele Coro, aveva provato ad amalgamarle. Ma per farlo, aveva storpiato, mozzato, azzoppato il pensiero. Il pensiero è personale. E’ un modo per esprimere il didentro. Non può essere profanato. Io non chiedo niente. Non amo apparire. Nemmeno essere. Uso cancellarmi dalle intestazioni e mi cancello dai titoli di coda. Ma il pensiero… Il pensiero è come il vangelo. E’ secondo me. Deve rimanere tale. Altrimenti non è il mio. Sarà il suo. Sarà diverso. Se lo farà lei. Ed è questo che le ho detto. Forse male. Anzi male. E il suo venticello di primavera diventò burrasca d’inverno. Federica buttò fuori tutte le sue antipatie personali verso il mio modo di pensare, e probabilmente verso la mia persona. Ma alla fine, riportò l’originale e adattò un’altro pezzo musicale alle parole. Ma non mi chiamò più. E non ci vedemmo più. Fino ad allora.

Mi mise un auricolare delle sue cuffiette nel mio orecchio, quello prossimo al suo, ed esclamò:

“Nonostante abbia dovuto far adattare un’altra musica meno bella…alla fine poi non fu tanto brutto il miscuglio del risultato…vero..?”

Era la prima volta che parlavamo io e lei di quella canzone. Io avevo avuto solo qualche scambio di idee con Manlio. Lui, come sempre, riusciva a mediare sempre tutto. E anche in quel caso era stato il padre inseminatore di un componimento i cui semi sorgivi si erano collegati insieme in una sorta di abbraccio musicale voluto da lui.

Federica la canticchiava in sottofondo. Io presi una sberla sulla mano quando le dissi di non rovinare con i suoi gracchi una melodia così bella. “Uno più uno fa mille” il titolo era questo originario e questo era rimasto.

“E ci si prende per mano. E stare fermi e volare lontano. Tanto ti porta la stella, ti porta dove vuoi tu…”.

Ma Federica ha una voce molto bella. E canta anche tanto bene. Ma non glielo dissi.

Villa San Giovanni arrivò dopo qualcosa più di 6 ore. Scendemmo dal treno che era già sera. Ci accompagnarono ai Traghetti e di lì a poco fummo a Messina. Ci attendeva un’auto che ci fece arrivare a Catania in tempo per cenare in Hotel così frugalmente e poi andare a riposare. Già riposare. Io stavo aspettando l’aura. Che non è Laura. Nome proprio di persona, genere femminile. No. E’ elle apostrofo Aura. Sarebbe quella sensazione, con miscugli di flash visivi e nervosi, che precede e presenta inopinatamente l’arrivo della mia cefalea a grappolo o emicrania trigeminale. O entrambe. A secondo se non hanno niente da fare e si vogliono fare una passeggiata nei mie gangli nervosi e nelle arterie craniali. I tempi erano quelli. Ci eravamo quasi. Io non posso però mancare alla celebrazione della funzione per Manlio. Una possibilità c’è. La tento. Una sottocutanea di Imigran. Per non sbagliare una ora e una domattina. “Manlio se tu sei lassù….ed è vero tutto quello che sempre ci siamo detti…beh..è venuto il momento di metterlo in atto. Intercedi per me. Prenditelo di prepotenza, non lo so, fai tu. Tu sai come fare. Io non voglio mancare. Non posso. Devo dire ai tuoi commensali un paio di cose domani in chiesa. Non mi tradire proprio ora. Ci tengo”. Feci….e dopo il sonno fece la sua. L’indomani mi svegliò il mio BlackBerry puntuale con il suo “Adagio” e mi misi a sedere sul letto. Controllai il mio stato di testa. Non sentivo niente. Alzai persino gli occhi all’insù come per vedere ingenuamente il mio cervello dal di fuori e dal di sotto. Non dava segnale di minima dolorabilità. Chiamai Manlio per la colazione. Prima però buttai in vena un’altra Imigran. Mi intorpidì ancora un pò, ma non volevo rischiare. Manlio non mi rispose.

Scesi da solo sotto per la colazione. Manlio era già seduto. C’era tanta gente attorno a lui. Manlio si era fatto volere bene anche da queste parti. E il fatto che era venuto per rendere i suoi omaggi al suo amico omonimo, per i siciliani era un onore da ricambiare con massimo rispetto.

“Manlio mi fece cenno con la mano di avvicinarmi al tavolo. Vidi una ragazza minuta seduta di spalle parlare con lui. Accanto a lei un energumeno in piedi. Sarà il suo fidanzato, pensai. E pensavo tra le altre cose, che i fidanzati ormai sembrano delle guardie del corpo, tanto sono palestrati. Quando sono arrivato, capii che non era il fidanzato, era proprio una guarda del corpo. Almeno era quasi certo.

“Ciao Loredana…” la riconobbi e la abbracciai, ero proprio contenta di rivederla, dopo l’incidente occorsole l’anno scorso. Brutto incidente.

Loredana è una ragazzina di Sicilia. Orfana fin dalla tenera età, Genitori rumeni. Adottata da una coppia di Agrigento. Loredana sembra una ragazzina. ma ha più di trent’anni. Occhi pastello colore del cielo più azzurro. Sguardo sempre triste, anche quando ride. Soprattutto.

Loredana di Amici di Maria de Filippi. Loredana Errore. Per lei e per Lei … “La voce delle stelle”.

Federica e Daniele quella volta non cambiarono neanche una virgola. La musica poi riuscirono a comporla e ad amalgamarla splendidamente. E poi Loredana la cantò pensando alla sua vera madre, mai conosciuta. Eccezionale. Da brividi.

Loredana è una ragazza molto timida. Ma quando si scioglie la devono fermare. Parlò circa mezzora tutto di un fiato. Progetti, programmi, speranze, persone nuove, il fidanzato, l’incidente, le cure, la paura, la plastica, ricominciare, il coraggio, la forza, il cielo, il suo dio, la malinconia, la voce, i produttori, un nuovo cd. E poi la gioia di esserci riincontrati.

Attendevamo che arrivasse Franco. Ma Franco arrivò tardi. Solo giusto in tempo per assistere alla funzione religiosa. A fine messa, Battiato cantò in diretta con l’aiuto del pianista, e con l’autorizzazione del parroco, la canzone culto di Manlio: “La cura”. Una canzone spirituale. Era stato Manlio a chiederglielo quando era in vita. Commovente. Bravissimo lui. Da pelle d’oca. Sublime la poesia. Meravigliosa la melodia. Grazie Manlio. Anche per avermi aiutato a presenziare la tua cerimonia, mandando la mia emicrania una volta tanto a farsi fottere….giusto come mi dicevi tu ogni qualvolta mi trovavi dolorante al telefono…. Vola in alto. Non strapazzare troppo i Santi. Continua la tua vita lassù. Vai a cercare chi sai tu. Dalle un bacio per me. E se puoi, tienimi il posto accanto a Lei. Un abbraccio.

@ilcortomaltese

Lascia un commento